mercoledì 13 aprile 2011

XIV - A FESTA RU SIGNURI- Tradizione e identità. di Elisabetta Grimaudo

Studio antropologico della festa


di ELISABETTA GRIMAUDO


Osservando il calendario cerimoniale ci si rende conto dell'esigenza dell'uomo di esercitare una forma di controllo sul corretto svolgersi dei cicli vitali e dei cicli produttivi, non solo dal punto di vista delle tecniche e dei tempi di produzione, ma anche attraverso un costante rapporto di scambio con le entità che ne governano il corretto svolgimento.
Già i primi agricoltori si affidavano ai defunti o agli spiriti della natura per propriziarsi un abbondante raccolto, e così dal politeismo fino al monoteismo.
Infatti una cultura come quella siciliana, vissuta per millenni grazie allo sfruttamento della terra, sia in forma di coltivazione che di pascolo, è indissolubilmente legata a quei cicli stagionali che nelle società tradizionali scandivano i ritmi della vita sociale. La vita stessa della comunità dipendeva dall'abbondanza del raccolto e dalla fecondità degli armenti.
Esiste dunque un'antica connessione tra calendari cerimoniali e cicli di produzione. Questo porta a una rappresentazione circolare del tempo e dello spazio, fondata sull'osservazione del ripetersi del ciclo dell'anno. Già in epoca protostorica e probabilmente prima, gli uomini, osservando i mutamenti della natura dall'avvicendarsi dei solstizi e degli equinozi regolarono, unitamente a questi cambiamenti, il calendario dei cicli produttivi e dei riti collettivi. " Così le date solstiziali ed equinoziali, i tempi di semina e del raccolto,coincidono nell'attuale calendario cristiano con celebrazioni universalmente diffuse che denunziano una collocazione non casuale".
La comunità monrealese preserva una forte identità contadine. Fino al dopoguerra vigeva quel mondo ormai scomparso, basato su una diversa maniera di essere e di pensare, su un sistema di strette corrispondenze tra il ciclo della vita e il ciclo della natura, strutturato in una fitta trama di relazioni che le donne o gli uomini intessevano con la famiglia e/o la comunità. Un paese di cultura prevalentemente agraria, immerso nelle leggende che divengono realtà storica e si tramandano da padre in figlio. Quotidianità fatta di gesti ormai desueti: riempire l'acqua alla fontana, battere il frumento nell'aia, accendere il braciere per scaldarsi, spegnare il lume a olio prima di dormire, vivere nell'angoscia delle malelingue del vicinato da cui, però, trovare anche un aiuto , un consiglio. Si vive nella comunità e in comunità; tutti si conoscono, si oservano, partecipano delle gioie e dei dolori altrui.
E' in questo contesto comunitario agrario che si fondano i miti e i riti monrealesi.
Le feste in onore del SS. Crocifisso, per la loro precisa collocazione all'interno del calendario rituale siciliano, sono un importante polo di assorbimento di pratiche cerimoniali precristiane connesse alla criticità del passaggio tra germinazione e raccolto.
Il mese di maggio, infatti, è per il contadino siciliano un mese decisivo. E' il momento in cui si osservano i frutti del duro lavoro di semina avvenuto nel periodo invernale. I campi sono nuovamente tinti a festa, da frutti e fiori e arricchiti dal prezioso frumento dorato. Le spighe " secondo la credenza, per la festa del Signore, sono belle compiute (cunchiute) ": il grano sta per giungere a maturazione. Ci si prepara per la raccolta << giugno, giugnetto a fauce sutta u letto>>  (giugno e giugnetto, la falce sotto il letto), proverbio monrealese sulla bocca dei più anziani.
Tra i diversi rituali festivi e tradizionali, che testimoniano la permanenza della cerimonialità agraria, possiamo notare le feste dedicate al SS. Crocifisso, celebrate in Sicilia diffusamente il tre o la prima domenica di maggio. Non è solo la collocazione calendariale della celebrazione della festa a segnalare l'importanza della transazione periodica del ciclo agrario, ma sono anche i simboli rituali utilizzati dai devoti, che rinviano direttamente alla produzione agricola. I ceri votivi utilizzati in passato dai fedeli durante la processione, oltre ad essere di maggiori dimensioni rispetto agli attuali, erano decorati con spighe di grano, inequivocabile segno distintivo di una dimensione riferita alle condizioni della vita materiale. Ma è un preciso momento della processione che sottolinea maggiormente la matrice agraria della comunità monrealese, quando l'effige del SS. Crocifisso si trova in via Benedetto D'Acquisto (a strata nova), e viene rivolta verso la campagna della Conca D'oro per benedire con il suo sguardo la campagna rendendola fertile e rigogliosa:<< Nostru Patri! / Binirici a campagna!/ Grazia Patruzzu Amurusu! / Grazia!/>>.
E' chiaro come nella festa elementi culturali s'intreccino a quelli naturali: i segni della cultura materiale si trasformano in simboli sacrali.
La comunità monrealese vive in perfetta sintonia il connubio tra il sacro e il profano della festa. I giorni uno e due maggio fanno infatti da cornice laica all'aspetto sacro del terzo giorno. Negli ultimi giorni di aprile, le vie del paese vengono animate da un variegato panorama musicale entro cui si sovrappongono il suono delle bande musicali, i ritmi incalzanti dei tammunirana, il suono della tromba dei bersaglieri, le manifestazioni folkloristiche , tra le quali vanno ricordate le tradizione sfilata dei carretti siciliani di antica fattura e le tanto attese corse dei cavalli. E' probabile che l'usanza ludico rituale delle corse equestri sia da ricondurre all'influenza degli Arabi: queste genti portarono con sè oltre alle pregiate spezie e stoffe, anche i pali ippici a cui partecipavano abili cavalieri su stupendi cavalli di pura razza autoctona.
Con la cacciata degli "infedeli", avvenuta con i Normanni, il palio , seppur fortemente radicato, cominciò ad indossare panni cristiani.
La sacralità dei riti religiosi della festa del SS. Crocifisso si combina così con l'antichissimo quanto poco cristiano Palio dei Berberi, conosciuto come la Corsa dei Barberi. La prima testimonianza di tale palio la ritroviamo in un documento del 1508 in cui leggiamo che il nostro arcivescovo Alfonso II, figlio del re Ferdinando di Aragona, per acrrescere la celebrità di San Castrenze, patrono di Monreale, bandisce una bubblica fiera di quattro giorni dalla terza domenica di maggio. Non stupisce la collocazione calendariale della festa, nè la sostituzione del destinatario della festa. La festa del patrono è stata sostituita con quella del così designato "compatrono" ossia il SS. Crocifisso; il motivo di tale scelta deve essere ricercato nelle delibere del Concilio di Trento (1545 - 1563) che aveva proclamato il ritorno devozionale al mistero della Croce, tema centrale dell'ortodossia cattolica. La fiera prevedeva un commercio animatissimo e le corse dei berberi erano un forte richiamo per le genti dei paesi vicini. Nel pubblico bando del 22 maggio del 1508, in occasione della fiera, si invitano cittadini e stranieri: "tanta per la dicta fera quantu per la dicti palii voglanu viniri divoramenti ad reveriri et honorari lu dictu gluriusu Sanctu (...) sia liberu lu intrari et lu nexiri accaptari et vindiri di qualsivoglia mercancia et condictioni di quilla etc. senza pagari angaria nixuna accussi comu su franche in qualisivogla atri feri etiam". Le corse equestri vengono definite come un "nuovo spettacolo per Monreale". Questa significativa testimonianza porta a dedurre che il palio svolto nel paese a partire dalla prima metà del cinquecento. Le corse al pallio prevedevano che : "si currira palio lu quali per li jannecti sarra di villuto carmexino inforrato di domasco et di li jumenti di domasco et li altri di singulu more solito".
Il demologo Giuseppe Pitrè, in Feste patronali in Sicilia, si è ampiamente soffermato sulla descrizione della festa del SS. Crocifisso di Monreale. Nel suo scritto si accenna all'atmosfera che le corse dei cavalli creavano nella comunità: "Il 3 Maggio del 1898 dunque, nelle prime ore del pomeriggio, io mi recai a Monreale. Era il terzo giorno della festa, e si parlava con vantaggio e con calore delle corse dei primi due giorni. Il palio era stato vinto da cavalli paesani. Un bardaloro poi, era corso come una piuma, veloce come il vento e s'era lasciati addietro non so quanti passi tutti gli altri".
La valenza storico antropologica della corsa dei barberi ha influenzato alcune espressioni dialettali tradizionali come ad esempio il detto: pari un varvaro, riferito a una persona che va sempre di corsa.
Il momento ludico all'interno della festa è fondamentale. Il gioco è visto dalla comunità come un momento di aggregazione da un lato, di sfida dall'altro, configurandosi come un'evasione dalla sfera del quotidiano. La festa rappresenta un momento di pausa imposta all'usura del trascorrere dei giorni e delle stagioni, e non a caso si dispone nell'arco dell'anno, in quanto esso viene considerato una misura cosmica e umana al tempo stesso. Il gioco che prorompe all'interno dello spazio sociale semanticamente atto creatore, fondatore dell'universo, è del caos che si rigenera il cosmos. Gli Elleni celebravano con giochi le loro grandi feste religiose e i loro santuari, e il loto tempo festivo - tempo di sospensione delle norme consuete - era un tempo di giochi, come le Olimpiadi.
La festa richiede un impegno culturale intenso e vi prorompono elementi orgiastici. " Parlare di rito, presentare la festa e il gioco come riti, e aggiungere che di festa e di gioco le società hanno bisogno per non disgregarsi, quindi per riconoscersi, quindi per reintegrarsi e rinnovarsi, equivale ad affermare che le società hanno bisogno del rito".
Ecco la festa farsi, per così dire, testro e svolgersi tutta all'interno di un cerchio magico apotropaico in cui si rigenera ritualmente l'energia.
Una pratica rituale ormai scomparsa, che si svolgeva a Monreale per il tre di Maggio, è la cosidetta Vulata i l'Ancilo (volata dell'angelo) o Calata i l'Ancilo (discesa dell'angelo). Purtroppo non ci sono fonti scritte che descrivano tale rito, tranne le poche righe di un romanzo monrealese degli anni trenta: "Poi si faceva a quel posto, la "volata dell'Angelo" che era un ragazzino calato su alcune corde dall'alto fino al Cristo per gridargli la più ingenua e la più graziosamente balorda serie di strofette, più o meno impappinate". Si può supporre che tale usanza risulti postuma alla visita del demologo Pitrè datata al 1898, perchè nel suo testo non se ne fa menzione. Essa inoltre non ebbe lunga durata: presumibilmente sorta agli inizi del Novecento, venne interrotta bruscamente nella metà degli anni quaranta, a causa di un drammatico incidente verificatosi durante la sua messa in scena. Nei ricordi dei più anziani, e dalle testimonianze raccolte, emerge che la volata dell'angelo prevedeva il mascheramento di due bambini del paese inferiori ai quattro anni d'età. I prescelti indossavano un abitino bianco e delle ali di stoffa modellati con il fil di ferro: Venivano poi appesi a dei fili a mezz'aria, legati all'estremità dei balconi, uno di fronte all'altro della piccola via Miceli e calati contemporaneamente sulla vara mentre i fedeli lanciavano petali di rose. Un corteo di fanciulli vestiti con abiti color pastello e dei lunghi nastrini colorati legati ai polsi, recitavano delle poesie dinanzi la sacra effige. Tutto questo avveniva due volte all'interno del percorso processionale: la prima quando il simulacro del SS. Crocifisso sostava, intorno alle 19,00 tra via Miceli e Via Antonio Veneziano. La seconda si svolgeva intorno alle 23,00, tra via Miceli e via Pietro Novelli, dopo che la processione aveva percorso gran parte del paese.La comunità intera omaggiava u Signuruzzu tramite i piccoli bimbi vestiti da angioletti. Come emerge da questa pratica devozionale gli infanti esposti alla presenza del simulacro, ne assorbivano simbolicamente la Potenza, trasferendola auguralmente all'intera comunità. Va sottolineata la concezione arcaica del vigore vitale degli infanti, che nelle società contadine, come quella del monrealese, era messa in relazione con la propserità delle messi e il culto dei defunti. Lo statuto dei bambini nelle società tradizionali è incerto: non ancora inseriti nella struttura sociale degli adulti, essi necessitano di attraversare particolari iter rituali che ne sanciscono l'ingresso nella comunità.
In un dialogo avvenuto con nonna Bettina settansettenne monrealese, emerge in modo suggestivo e quasi poetico il clima di festa che pervadeva le strade del paese, la meraviglia e lo stupore che coglievano i partecipanti alla Vulata i l'Ancilo: " quannu era picciridda e sintia ca cc'era a vulata i l'ancilo mi partìa 
i cursa ra me casa a tutti i picciriddi nnè strate griravano: " sta accuminciannu a vulata i l'ancilo, spicciamunni!" Era troppu bellu! C'eranu tutti i cristiani cu l'abbiti novi e tutti i picciriddi chi scarpuzze bianche. Tutti si vistìanu eleganti.
Nno periodo ra guerra quannu si facia a vulata i l'ancilo c'eranu i picciutteddi ca ricianu i poesie o Signuri, mi nni ricordu una ca facia accussì: " Fermati Fermati o Patri Celeste! / Scinni ri sta Cruci / attenta a nostra vuci! / N'hai a perdonari / sta guerra u na putemu cchìu suppurtari! / Quanti figghi senza patri / quanti matri senza figghi! " Tanti cristiani chiancìanu". ( Quando ero bambina e sentivo che c'era la volata dell'angelo scappavo subito da casa e per le strade tutti i bambini esclamavano: " sta iniziando la volata dell'angelo, sbrighiamoci!" Era bellissimo! Tutta la gente indossava abiti nuovi e tutti i bambini avevano le scarpette bianche. Tutti erano vestiti in modo elegante. Nel periodo della guerra, quando si faceva la volata dell'Angelo c'erano dei ragazzi che recitavano le poesie per il Signore ( il SS.Crocifisso), ne ricordo una che recitava così: " Fermati Fermati o Padre Celeste! / Scendi da questa Croce / ascolta la nostra voce! / Ci devi perdonare / questa guerra non la possiamo più sopportare! / Quanti figli senza padre / quante madri senza figli!" Molta gente piangeva).
Nei giorni precedenti alla processione, le vie principali del paese sono gremite di gente. Intere famiglie passeggiano dalla piazza al canale e viceversa, o, per dirla alla monrealese: " facennu chiazza e varanni". Ci si trova immersi in un profluvio di suoni: il vociferio, i tamburi, le risa, la banda, le musiche assordanti delle bancarelle mobili; di esaltazione, di odori: da quelli dolci dello zucchero filato e del mandorlato, a quelli forti della milza; di calore e colore delle variegate bancarelle e delle strabilianti luminarie.
L'atmosfera della festa richiama i compaesani lontani partiti per lavoro. Si ritorna dalle metropoli del Nord Italia, d'Europa o d'oltreoceano. C'è chi torna per ringraziare personalmente il SS. Crocifisso per una grazia ricevuta, chi intende ritrovarsi con i propri familiari, rinnovare sentimenti di appartenenza, ostentare il benessere guadagnato a caro prezzo, si è nuovamente immersi tra i colori e gli odori altrove non fruibili, e in gestualità altrove non praticate e non praticabili.
La festa è infatti, anche identità collettiva, mantiene vivo il senso dell'appartenenza, è veicolo di comunicazione sociale, riaffermazione comunitaria. E' sempre un nuovo inizio, un momento di rifondazione. L'intera comunità viene coinvolta e la partecipazione delle massime autorità, tanto religiose quanto civili, è sempre stata ritenuta indispensabile. " La presenza, in quanto vertice di fatto dell'intero corpo sociale, costituiva di fatto la garanzia nel momento della rifondazione del tempo, della ricostruzione  della società stessa". e attraverso le feste che degli uomini riproducono e riaffermano le propria identità comunitaria, che, ritualizzata, rappresenta la memoria storica della comunità. Il discorso intessuto dai simboli rituali è il riflesso dell'ideale visione del mondo della comunità presa in esame. Codici di riconoscimento condivisi che vengono conservati e trasmessi per permettere agli appartenenti a tale cultura di orientarsi e operare sul mondo. Le feste sono l'esito di una manipolazione simbolica del 'reale', correlata ai ritmi fondamentali della vita cosmica e umana. Analizzando la festa da una prospettiva più ampia, infatti, emerge il continuum  di rappresentazione della realtà popolare, la ciclicità della natura che confluisce in quella della cultura, i cicli vegetali e la vita dell'uomo impregnata dalla realtà simbolica, che seguono lo stesso ritmo spazio-temporale all'interno della dimensione rituale.
Nonostante la profonda evoluzione della società abbia orientato quest'ultima in senso consumistico, creando nuovi stili di vita e di costume, tuttavia permangono in essa, evidenti tratti di una religiosità contadina che preserva ciclicamente antichi gesti rituali custoditi dalla memoria e dal passato. Gli antichi riti continuano ad accompagnare l'uomo, anche se è inevitabile un progressivo mutamento del loro senso. Le feste, nell'arco del loro perpetuo ritorno ciclico si incontrano con uomini  e idee sempre nuove, con trasformazioni economiche  e tensioni sociali, con compromessi tra istituzioni civili e religiose.
Scrive lo studioso Ignazio E. Buttitta: " Il rito festivo è un, se non il " luogo culturale" per eccellenza di affermazione individuale e sociale in un quadro di rifondazione cosmica, di partecipazione e di relazione, di risoluzioni di conflitti (emotivi e/o sociali), di sospensione/sovversione e a un tempo di riproposizione di ruoli, rapporti e gerarchie, di soddisfacimento di esigenze economiche, sociali e culturali, di produzione e ri-produzione di sensi (individuali e collettivi) in una dimensione spazio-temporale percepita come "altra" da quella quotidiana".
La festa di maggio è anche luogo e metafora della luce e del sole che per antica consuetudine  cosmica, anno dopo anno, si carica di rinnovate promesse.Sole che irrompe con tutta la sua potenza generativa, con la sua capacità di sconfiggere periodicamente l'angoscia dell'oscurità invernale.
A festa ru Signure, dunque, come ritorno di luce e fonte di vita, a cui la devozione dei fedeli, da secoli, dedica la festa di Maggio.

Elisabetta Grimaudo